Il giorno in cui le statue del Brembi si animarono,
il parroco scampanò fino a piagarsi i palmi delle mani. Lo fece di persona,
avendo fiducia nel solo suo fervore, ma spedì il sacrestano, che obbedì seppur
pervaso dal terrore, a convocare in chiesa i fedeli per un rosario ad oltranza,
fino alla cacciata del male. Tempo dopo, quando tornò a sonnecchiare in paese
una pace ispida, il Parroco iniziò a trattare quotidianamente le piaghe con
balsami d’oriente, per conservarle vive, spacciandole per notevoli stigmate.
Le statue da giardino, tornando a noi, erano
radunate sotto una tettoia che poggiava al muro della bottega del Brembi.
Accompagnate da un insolito crepitio, suono che non s’addice alla pietra, come
se volessero accompagnare la propria resurrezione con innocui petardi per
bambini, imboccarono la strada di fronte. Risalendo la salita e, non si sa
come, un poco sfregandosi, seguendo la curva a gomito che più su sfilava sul
lato sinistro della chiesa, s’erano
poi infilate nel viottolo a destra. Divise in due
file miste, avevano aggirato l’edificio sacro lungo i lati, per sbucare
sul sagrato e proseguire lungo la scalinata; venti gradini di pietra, che a
piedi scalzi pareva morbida come il velluto, che scendevano nella piazza del
paese.
Al centro del sagrato s’ergeva un’imponente San
Cristoforo, che visto da lontano pareva un titano, poiché, come da tradizione,
portava in spalla il Cristo bambino.
La statua di San Cristoforo seguitava a fissare un
punto lontano, da un secolo, indicandolo con l’indice della mano destra, a
braccio teso; in luogo del fiume da traversare, di fronte a sé v’era il paese,
poi la valletta in cui giaceva la frazione di Odiate.
Nel florido periodo positivista, quando tutto si
misurava senza apparente finalità, dei
naturalisti armati di teodolite ed altri ameni aggeggi conclusero che la
traiettoria disegnata dall’indice del Santo puntava la roccia al culmine della
collina, distante 3 chilometri circa, oltre la frazione.
La nomea di Odiate, grazie ai naturalisti, si
rafforzò. Si sparse la voce che il San Cristoforo doveva guadare la frazione,
in luogo del fiume. Il senso fu chiarissimo, anche per i più grossolani,
l’elementare messaggio simbolico indicava Odiate come l’ostacolo, il pericolo.
Anche io evitavo d’addentrarmi in Odiate. Il nome astioso,
le poche case popolate da cinque abitanti irsuti e leggermente curvi, la
nebbiolina giallognola che dal torrentello s’alzava e impregnava le campagne… Le
rare volte che il mio sangue assaggiò quell’ossigeno, in me si fece largo un
risentimento profondo e ingiustificato, repentino e prepotente. A quindici anni, poi, lessi il Milione. Si narrava, fra l’altro, di
un sovrano che comandò ai suoi saggi di studiare uno stato confinante e
scoprire le ragioni della violenza innata degli abitanti. I saggi sentenziarono,
senza alcuna ombra, che la terra di quei
luoghi spingeva l’uomo alla pazzia. Il sovrano, perfido e spietato, fece
trasportare al suo palazzo quella terra assassina, via mare, ricoprendo i
pavimenti del palazzo e nascondendo il terreno infetto con sontuosi tappeti.
Il terreno malato innescò una carneficina fra gli invitati
al ricevimento, organizzato a corte.
Mi resi conto che Marco Polo narrò d’una sventura
pari a quella di Odiate.
Per dare una sintesi, io mi figuravo il vento infilarsi
nella valletta di Odiate, incanalarsi lungo il torrentello e trasportare in paese
folate d’aria; l’aria che rabbuiava la ragione, l’aria che portava in spalla
l’esalazione della terra d’Odiate, mentre il San Cristoforo in spalla teneva il
figlio di Dio, andando incontro alle ventate maligne e, confortato
dall’Altissimo, le superava.
Le statue del Brembi erano esposte ai venti del male. La bottega era sulla via principale, all'angolo formato con la stradina per Odiate. Venivano prese alle spalle, non avevano speranza d'una esistenza statica e inanimata. La malia delle terre folli, dunque, le imbolsì e le spinse sul sacrato, dove s'ostinarono a voler scendere la scalinata; molte s’infransero di sotto.
I nani e le Biancaneve, i cerbiatti e le anatre,
avendo arti, camminavano e zampettavano con piglio che emanava insondabile
sicurezza marziale. Le anfore e le amanita muscaria rotolavano, si
strascinavano da sole senza obbedire a legge fisica alcuna. Le piccole grotte,
con madonnina connaturata, s’alzavano in volo e procedevano rettilinee; oscillavano come appese ad un filo, come cervi volanti dal volo ubriaco.
Proprio una madonnina ingrottata, paradossalmente,
fece l’unica vittima. La vergine volante non si sbriciolò contro il primo
ostacolo, ma imbroccò la giusta rotta, galleggiando nel vuoto fra due palazzi
della piazza. Svolazzò un paio di chilometri, poi, proprio ad Odiate, uccise
uno dei cinque licantropi, entrando nella sala da pranzo, attraverso la
finestra spalancata e sfondando il cranio dell’uomo lunatico, mentre divorava selvaggina senza posate.
Fu questo un incidente, senza dubbio, perché le
altre statue si prodigarono in uno sterile suicidio di massa. Chi rotolando
lungo la scalinata della nota chiesa, chi sbriciolandosi contro la facciata d’un
palazzo, chi mettendo un piede in fallo e cadendo dal muricciolo e, infine, chi
infilandosi sotto le ruote d’un carro ben carico.
Nulla accadde; non fu un tentativo d’invasione, nessuna statua mirò al
potere. Sembrò soltanto una tremenda dimostrazione di potenza.
L’ultima statua che rimase, un cerbiatto, cadde
urtando con la testa un basso ramo di fico e, coricata sul fianco destro,
proseguì imperterrita a trottare, ma senza sortire effetto.
Le zampe anteriore e posteriore destra, a contatto
con l’asfalto, dimenandosi incessantemente iniziarono a consumarsi, a
sgretolarsi, mentre il cerbiatto girava in cerchio.
Col rumore tipico delle macine arcaiche, le zampe
di destra si polverizzarono in una settimana. Quando l’ultima pellicola di
zampe si disfece, il cerbiatto si inclinò verso destra, cosicché gli
zoccoli trottanti di sinistra ricominciarono l’agonia da sfregamento, facendo
girare in tondo la bestia granitica; le zampe rimanenti si consumarono, ma
soltanto fino a metà femore, in sei giorni.
In un tale stato d’amputato, il cerbiatto si
inclinò verso sinistra e raggiunse una posizione di equilibrio.
La scena non poteva che rinforzare l’ipotesi
demoniaca, la forza infera e incontrastabile.
Il cerbiatto era ormai immobilizzato su di un
fianco, i moncherini delle zampe e la piccola coda si muovevano senza mai una
variazione di tempo; non vi era stanchezza. Chiusero la strada; nessuno si poté
avvicinare all’agonica diavoleria. Gendarmi a turno, armati di tutto punto,
allontanavano quei pochi e temerari curiosi.
Lo sguardo era fisso, ricordava
quello d'un morto, pur mantenendo la sua nauseabonda dolcezza, essendo un simulacro del Brembi, cioè di buona fattura, malgrado tutto. Un gendarme, forse, in uno slancio d'umanità, decise di pitturare le palpebre chiuse.
Dopo cinque mesi e venti giorni, le articolazioni
dei moncherini e della coda mostrarono segni di usura. Dopo altri 4 giorni
caddero, lasciando la statua in uno stato di enigmatica apnea.
Nessuno poteva capire se avesse ancora un’attività,
magari galvanica; perse le parti mobili ritornò apparentemente al suo ruolo di
statua.
Venne trasportata nottetempo in città, con un
intero battaglione di fanti come scorta; si temeva cadesse in mani sbagliate.
Non se ne seppe più nulla; nessuno domandò. Alcuni, tornando dalla città, raccontarono che nessuna forza venne rilevata dagli scienziati. Non c'era anelito alcuno, né scossa elettrica nel cerbiatto del Brembi.
I licantropi di Odiate, dal carattere schivo e imprevedibile, non figliarono e lasciarono il posto a raffinati borghesotti di città, che cercavano serenità nei pressi del torrentello.
Di quella vicenda insopportabile rimane soltanto una traccia sulla facciata del palazzo di fronte alla chiesa. Una cornice di stucco, ben fatta, racchiude un'insolita impronta, senza alcuna targa a memoria.
Sembrerebbe l'effetto d'uno sparo a pallettoni, o di una grossa pietra scagliata a due mani; avvicinandosi un poco, l'occhio acuto può intravvedere graffi azzurri e rossi, i colori d'uno schianto della madonnina.
I licantropi di Odiate, dal carattere schivo e imprevedibile, non figliarono e lasciarono il posto a raffinati borghesotti di città, che cercavano serenità nei pressi del torrentello.
Di quella vicenda insopportabile rimane soltanto una traccia sulla facciata del palazzo di fronte alla chiesa. Una cornice di stucco, ben fatta, racchiude un'insolita impronta, senza alcuna targa a memoria.
Sembrerebbe l'effetto d'uno sparo a pallettoni, o di una grossa pietra scagliata a due mani; avvicinandosi un poco, l'occhio acuto può intravvedere graffi azzurri e rossi, i colori d'uno schianto della madonnina.
6 commenti:
Il boschetto
Evaporato
In Via Manzoni
Non ritorna
Croniche di un mondo vero, anche queto non scomparso ma evaporato.
Confesso: nei paraggi di casa mia c'è Odiago...
Ciao Marco!
Bel racconto!
Ma c'è una sorta di consequenzialità con i precedenti o mi sbaglio?
Sinceramente... non è voluta.
Rileggendo, però, "noto" una certa certa coerenza.
Carlo, sei un ottimo raccontatore.
Daniela Andreis
Grazie Daniela!
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