Benché la mia cultura generale sia soltanto una sapiente spolverata, e
ciò – gioco forza – sia lo spirito della mia scrittura, vi è uno sparutello
gruppo di persone che mi manifesta stima, talvolta financo lasciandosi scappare
paragoni spregiudicati, citando colossi i quali, per pudore, non nomino.
Di questo gruppuscolo di aficionados, qualcuno si spinge oltre la
spontanea stima e domanda perché latiti, mi pungola e richiede che io partecipi
con maggior puntiglio a questo caos (forse democriteo) che è lo scrivere
anonimo, nell’oceano della rete.
Ebbene, sento oggi il bisogno di spiegare il mio ultimo sonnecchiare;
che sia un fisiologico moto di peristalsi? Non so, ma non ne abbiate a male…
Allora: molti anni or sono, studente di chitarra classica, prendevo
lezioni sul retro d’un negozio di strumenti musicali. In quel tempo, del quale
nulla persiste, se non io e la chitarra, scribacchiavo le prime mitosi della
mia poetica.
Tengo ad evidenziare che “il retro di qualcosa” è sempre luogo di
rivelazioni, siano calcinacci dimenticati dopo remote ristrutturazioni, che
ossa di gallina schifate dai moderni gatti sfamati ad aromi artificiali.
In quel negozio, in attesa del maestro, mi capitò per le mani un
vecchio libello di non so chi: la trascrizione di un’intera intervista a De
Gregori; preciso che, dato il caratteraccio del Francesco, il termine
intervista è fuori luogo.
Ebbene, San Francesco, tanto l’amavo da collocarlo fra le mie personali
icone, raccontava il suo stile di scrittura dei testi, usando quale esempio
(che io ricordi) la mirabile “Cercando un altro Egitto”, in cui si narra, Vi
ricordo, come la mattina presto San Francesco venga chiamato dalla strada, pare
che qualcuno lo voglia uccidere e lui, un po’ confuso, prenda tutto e “come San
Giuseppe” si ritrovi a rotolare per le scale, cercando un altro Egitto.
Il Santo spiegò che ben poco gl’importava di essere compreso, o che il
testo avesse un senso, ma che si dilettava ad accostare immagini le quali, a
risultato finito, parevano formare una storia compiuta.
Una lacrima mi sfuggì, perché io stavo abbozzando un qualcosa di
simile; mi sentii sorretto dal mio vate ed il mio vagito prese forza.
Da quell’involontario plauso del mio caro aedo nacque una ruvida raccolta di poesie, seguita da una seconda
ben più raffinata, in quanto l’esercizio paga sempre.
Le prime furono storie brufolose, da scariche ormonali, nelle quali
consigliavo di “lasciare ai pianeti le rivoluzioni/per quanto io ami quelle
autunnali” o me la pigliavo con Europa Radio, colpevole a mio dire di tenere un
piede nel presente ed uno nel vuoto.
Fecero seguito poesie più delicate, intime e – qualcuno afferma –
alchemiche; ecco. Qui, giunti all’alchemico, ho incontrato il vallo
invalicabile.
Passai qualche anno fa, lungo la costa, davanti all’isola di Krk, il
cui nome ricorda una frattura, ed una placida coltre nebbiosa la nascondeva; il
ponte che la univa al continente infilzava una nuvola.
Questo accidente naturale mi colpì. Pensai di comprendere anche il
mito di Avalon e mi produssi nel metallico e moderno, nonché scialbo, mito dell’ascensore.
Immagino allora un palazzo a più piani.
In ogni piano si parla una differente lingua e, forse, persino l’aspetto
dei residenti è differente; io lo ignoro, in quanto non ho accesso ai piani (se
non al primo) e neppure conosco le diverse lingue di questa babele.
L’unica mia possibilità, per conoscere i mondi a me proibiti, è quella
di sfruttare il lift-boy, dotato di passepartout.
Egli mi ascolta, annota, sale di piano, guarda, chiede, traduce e mi
riporta. Il punto focale della questione riguarda il linguaggio utilizzato dal
caro lift-boy.
Egli non è poliglotta, appare anche privo di volontà. Egli usa una
sorta d’esperanto matematico, le cui parole si fondono o si giustappongono a
quelle di lingue sconosciute. Si miscelano, come parassiti sguazzano negli
ambienti stranieri.
E’ il midollo matematico che conferisce proprietà trasformista alla lingua
del ragazzetto.
Così, il mito termina qui; avevo avvisato che fosse scialbo.
Ora, posto che, senza linguaggio non c’è pensiero e senza pensiero non
c’è espressione, si deve accettare il fatto: si scrive di ciò che si conosce,
si ricerca sempre e solo di ciò che si conosce. La scienza così si muove in un
apparente buio: si muove di un passo, dopo aver imparato cosa sia un passo.
Ragion per cui, concludo, siccome si ricerca l’ignoto in base al noto,
lo scrivere a mio avviso procede a ondate, a maree.
Io scrivo quando il ragazzetto torna a piano terra, quando posso esprimere ciò che di nuovo ha scoperto.
2 commenti:
Son gli accadere; che non insegnano, no, ma stesso insegnano, accadendosi fuor del loro accadere che ti si mostra quando lo sai vedere ed anche senza
E ti c'appiccico, a saluto, questa cosa ascensore
http://tentarenuoce.blogspot.it/2014/03/io-tinno-di-titillo-o-mio-ascensore-tu.html
Mi ricorda un'esperienza avuta proprio a Mestre... Ciao!
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