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Alle 7,30 di mattina, ne sono certo per via della mia inoppugnabile
puntualità, i muratori avevano già scaldato i muscoli e trafficavano intorno
alla crepa da un pezzo.
Entrai in casa a curiosare, prima di dedicarmi alle commissioni; mi
conoscevano, essendo il custode delle chiavi la sera prima si erano rivolti a
me.
Superato il pianerottolo, dove vidi tre secchi ricolmi di detriti, salii
al piano di sopra, inquieto, temendo un assassinio efferato, malgrado l’assenza
di sangue e poltiglie di tessuti vari, ma immaginando una distesa di calcinacci
e antiche pietre frammentate nella camera da letto. Uno scempio pari a quello
che colpisce tanti luoghi antichi, consegnati all’incuria del tempo piuttosto
che alla cura della storia.
Già, perché la crepa si annidava in un punto preciso della camera da
letto. Agli occhi un poco allenati, per scovare la sua tana, bastava
individuare il centro della testata del gran lettone matrimoniale, e da quel
punto risalire dritti verso il soffitto. Proprio nell’angolo fra questo e la
parete si ritraeva la crepa nei suoi momenti di riposo e di verosimile
riflessione.
I muratori, istruiti malamente dagli eredi, dopo aver spostato il
letto, avevano iniziato a scrostare il muro, risalendo dal pavimento al
soffitto, proprio al centro della parete.
Mi venne un capogiro; così procedendo, avrebbero raggiunto il
giaciglio della crepa.
In cuor mio, confidavo che essa avesse traslocato, magari in un’altra
stanza, fiutando il pericolo.
Nessuno mai, finora, s’era approcciato alla crepa con tale veemenza
distruttiva; ricordo la grazia con la quale Boldo stuccava i segni lasciati
dalla frattura, rimuovendo con leggeri colpi di spatola l’intonaco intaccato;
le sue mosse suonavano con tintinnii lontani e soffusi, come diapason. V’era un
rispetto inspiegabile nei confronti della crepa; un rispetto d’altri tempi,
intriso del timore reverenziale tipico dei semplici, verso un fenomeno incomprensibile.
Un fenomeno che, v’è da dirlo, mai procurò del male ad un essere umano.
Secoli fa, mi risulta che si tentò la via dell’Altissimo; esistono
documenti storici, conservati nell’archivio comunale. Si narra di svariate
infruttuose benedizioni. Nel ‘600, il Cardinale Mezzeria, di passaggio da
queste parti, non poté evitare una benedizione alla casa. La fama della crepa,
già allora, s’era diffusa in tutto il nord Italia.
Uno scrittore di scarsa fortuna, tale Tareggia, di cui si conserva,
appunto, una copia d’un suo scritto, narra che il Cardinale, assorto, toccò il
muro esterno della casa e neppure ebbe il coraggio d’entrare. Del crocchio
radunatosi, pochi imploravano di scacciare il maligno; i più erano dubbiosi: la
crepa non aveva ucciso, né rubato.
All’atto di impartire solenne benedizione, che in tali circostanze a
mio avviso s’infligge, il Cardinale volse i palmi delle mani verso l’alto,
inclinò leggermente la testa verso destra e puntò i suoi occhietti da lupo di
mare verso un punto ipotetico, in alto a sinistra, quasi a premettere che un
suo insuccesso fosse unicamente segno d’una superna volontà contraria. La
crepa, a giudicar dalla storia a venire, neppure si curò di lui.
Di benedizione in benedizione, lentamente si giunse ai giorni nostri.
I rosari e le aspersioni, via via furono sostituiti da calcoli e
rilevamenti, da carotaggi ed analisi; la crepa suscitò l’interesse del mondo
scientifico e artistico.
Si videro sfilare sempre meno sacerdoti, sostituiti in modo
altrettanto infruttuoso da architetti, geometri, geologi, bizzarri pseudo
scienziati e occultisti d’ogni sorta.
Non di rado, oggi giorno, nella stretta viuzza s’infilano bolidi neri
lucenti, con vetri oscurati. Dall’interno, personaggi di fama riconosciuta
scrutano le mura gibbose, nella speranza di carpire le trame dell’intelligenza
nascosta fra le pietre.
Alcuni mandano i loro chaffeurs a bussare alla porta, vorrebbero
entrare e vedere; alla bottega di alimentari (poco distante), uomini in
impeccabili uniformi da autisti a nolo acquistano buste di semi zucca, pop corn
o pane morbido, forse convinti che si possa attirare a sé la crepa con del
cibo, come un piccione; la pensata è d’infima specie, poiché – è risaputo – il
pennuto fa sfoggio d’intenzioni se in gruppo, ma colto da singolo è nulla, un
insieme elementare di riflessi senza redini.
Un giorno (vidi dalla mia finestra), un celebre cantante lanciò verso
la porta d’entrata una manciata di caramelle alla menta, piccole capsule
bianche, che si sciolsero sotto il sole di luglio.
Risalendo in macchina si disse sorpreso, fra sé e sé, in quanto
rammentava quanto le caramelle infervorassero persino le procavie della savana.
Il muratore dalle mani d’acciaio, in dieci minuti di mia silente
angoscia, scrostò d’impeto e ricavò un canale largo sessanta centimetri e
profondo cinque, giusto a metà parete, dal pavimento al soffitto.
Mi prese un colpo! La crepa era lì, in alto, lunga cinque dita, forse
dormiva o attendeva l’attacco dell’ignaro operaio.
L’uomo di fatica, salito su di una scala, notò la piccola frattura del
muro e subito ci puntò lo scalpello. Tremavo, il cuore mi spingeva la lingua
all’infuori.
Si assestò un colpo secco allo scalpello, che penetrò per metà nel
muro.
“Qui è tutto marcio…” osservò l’assassino e fece forza sullo
scalpello, per estrarlo.
Ogni sforzo era vano e la quiete mi rincuorò: la crepa non s’era
inviperita.
L’uomo allora passò ad usare solo il martello, direttamente contro il
muro.
Un leggero tremolio s’impossessò della casa; non perdemmo
l’equilibrio, ma ci guardammo atterriti.
Lui non vide nulla, ma io compresi: la crepa era uscita. S’era infilata
nel piano di sotto e, seguendo il suo abituale sentiero, passando dietro la
credenza, aveva solcato cucina e pianerottolo esterno.
Questa volta, però, s’era spinta fino in strada.
Sentimmo un fragore d’attrito di pietre che s’allontanava, lasciandosi
alle spalle urla di terrore.
Un lungo rombo, simile al verso del terremoto; il muggito del pianeta
andò verso est per trenta interminabili secondi.
La crepa percorse la viuzza, al centro, senza ledere i palazzi svoltò
a destra e disegnò un cerchio intorno al vecchio gelso, quasi a liberarlo da
decenni d’asfissia dell’asfalto (quei due, evidentemente, se la intendevano) poi
si buttò a capofitto lungo la discesa che portava al centro.
Sempre dritta, rettilinea, rispettosa delle case, giunse in fondo alla
discesa e prese la rotonda contro mano. Un’infinita ferita mi si aprì davanti
agli occhi, quando corsi a vedere.
La crepa percorse la strettoia del paese vecchio, una lunga sequenza
di botteghe, i cui negozianti allibiti balbettavano stupore, indicando lo
squarcio d’un metro di larghezza, dai lembi arricciati e fumigante.
La crepa superò la strettoia e s’allargò, laddove la strada lo
consentiva. Scese ancora verso la parte nuova del paese, lungo il rettilineo.
Giunta all’entrata del parco comunale, la imboccò eccitata. Girò a
destra, esattamente a novanta gradi, e s’infilò fra i due secolari tassi, le
cui rosse bacche, sballottate, ressero il trauma e non caddero mai più, restando
secche e abbarbicate per l’eternità.
Nel parco la crepa produsse una spaventosa voragine, ma non inghiottì
bambini e grazie a Dio demolì un’orribile riproduzione d’un tempietto greco,
che da anni guastava la mie passeggiate nel verde.
Tagliato a metà il parco comunale, divorò la piazza del municipio e fagocitò
due auto dei vigili.
Ebbe un sussulto, per un istante: diede chiaramente l’impressione di
masticarle.
Girò poi leggermente a destra e, della strada che conduce fuori dal
centro abitato, ne fece un canale.
Uscì quindi dal paese, s’incuneò fra un centro commerciale ed il
cimitero, costeggiò rombando il lago e s’arrestò, come d’incanto, in aperta
campagna.
Fognature, tubature del gas, linee elettriche e telefoniche: la crepa
aveva messo in ginocchio il paese.
Dalla spaccatura salivano mefitici fumi. Liquami maleodoranti
sobbollivano e placidamente scorrevano, come un fiume di lava, borbottando la
soddisfazione che procura l’agognata libertà.
Seguendo la crepa, la colata era accompagnata da scintille, scariche
elettriche, fiammate, modeste esplosioni. Tutto sommato un’allegra sarabanda.
Parte 1: Introduzione alla crepa
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