Nawaf e Ibrahim si introdussero
nella villa prescelta in pieno giorno. Il proprietario era uscito all'alba, non
sarebbe tornato che dopo il tramonto; i cani, tre fiere da circo con la folta coda
arricciata (visti di profilo ricordavano un bassorilievo) erano stati
rifocillati la mattina, ma, per non finire nelle loro fauci, se ne
accattivarono riconoscenza e fedeltà eterna, con brandelli di carne succosa.
Da ladruncoli diplomati, una volta
all'interno, cercarono subito la camera da letto, al piano di sopra, certi che
i cassettoni dell'immancabile comò celassero dei contanti e gioielli.
La preminenza della banalità,
nell'uomo, li premiò: in camera da letto dormiva un enorme comò in finta
radica, con pacchiane zampe leonine intarsiate.
Spalancarono avidamente il
cassettone più alto e, nell'angolo in fondo a destra, trovarono una scatolina
cubica, pregiata, ricoperta di velluto porpora, con serratura dorata. Ibrahim
sospirò di piacere, carezzandola, ma Nawaf lo scostò grugnendo il disappunto.
Aprì la scatola; il coperchio, incardinato, si alzò lentamente, ma senza
scatti.
Ad entrambi si fermò cuore, quando
videro il contenuto. Fecero un balzo indietro, socchiudendo gli occhi, come
accecati si ripararono con le braccia: sul piccolo sacello di seta imbottita
riposava un bulboso occhio di vetro, che li fissava, con fredda attenzione.
L'iride appariva d'un indaco raro;
il colore che talvolta è disciolto nel mare aperto.
Erano raggelati. Nawaf si riprese
per primo, scosse il fratello e se la diede a gambe. Senza scambiarsi parola,
presero a correre a rotta di collo giù dalle scale. Uscirono dalla porta
scassinata, di corsa traversarono il giardino, coi cani alle costole, che,
com'è noto, giocherelloni, rincorrono sempre chi li nutre.
Nawaf era uno
spilungone, dinoccolato, con una folta capigliatura raccolta in una coda, il
cui colore suggeriva d’essere biondo, ma permanendo nella gamma degl’indefiniti,
a causa delle continue tinte artigianali.
Questa paglia stopposa
prosperava, adombrando un viso abbrustolito naturalmente. Al momento del parto,
una volta fuoriuscita la testa, sua madre spinse ancora per due ore; lui pareva
non finire più. Le mammane presenti argomentarono a lungo, per concludere che
il piccolo fosse arrotolato nella placenta; una sosteneva la teoria desueta
dell'organetto. Comunque fosse andata, il piccolo, in utero, giaceva certamente
compresso, per poi gonfiarsi ed espandersi in un respiro vitale, vedendo la
luce.
Altre teorie per un
siffatto gigante, non ce n'era e non ce n'è, riferendoci a verità scientifiche.
Le donne presenti, indottrinate alle verità empiriche, si voltarono tutte verso
il marito, il quale, all’apparenza, avrebbe dovuto trasmettere alla genìa
caratteri affatto diversi.
Vincendo l’imbarazzo
generale, il padre lo sollevò trionfante, chiamandolo Nawaf, l'alto.
Ibrahim, di due anni più
giovane, era l'opposto. Di bassa statura (la metà del fratellone), con capelli
ricci, corti e corvini, venne al mondo in un minuto.
Ricordava, appena nato,
il padre defunto due mesi addietro. Anche il colorito era quello, da forte
anemico, e di lui prese il nome; in memoria, quindi, e per propiziare la
carriera riproduttiva d'un roditore, il cui padre interruppe per arbitraria
premorienza.
Le donne, in mancanza di
argomenti piccanti, si limitarono a constatare la nascita del piccolo.
Quando Ibrahim iniziò a
trotterellare, un passo di Nawaf, lungagnone, ne valeva cinque dei suoi; per
stare al pari, sviluppò nella crescita un'animale rapidità. I suoi occhietti,
anch'essi erano animali. Piccoli e neri, ricordavano palle d'archibugio.
Gli occhi di Nawaf, come
tutto di lui, erano lunghi, quasi mostruosi, ravvicinati al punto che,
guardandolo distrattamente, appariva come un ciclope, con un solo occhio, bislungo,
poggiato sulla radice del naso, sormontato dall'unico ed arruffato
sopracciglio, che pareva una siepe.
La mattina seguente al
tentato furto, Ibrahim era disidratato. La madre dovette strizzare il cuscino;
aveva perso tutti i liquidi salivando.
Nawaf si svegliò con una
forte infiammazione all'occhio destro. Una ragnatela di capillari percorreva il
globo oculare, uno scolo purulento era raggrumato sul bordo delle palpebre. Lo scolo odorava di cipolla.
Ibrahim se la cavò
bevendo due litri d'una tisana ripugnante, ma per Nawaf la madre si mise a
trafficare al camino. In mezzora preparò un decotto solforoso, da applicare come
cataplasma.
Zeina, farcendo la tasca
di panno con la fumigante pappetta, imprecò per non aver più polvere di mummia
e fece il gesto di carezzare il ritratto del suocero, appeso al muro peloso,
uomo d'altri tempi e d'altra mescola, gitano purosangue, che s'introdusse
addirittura in un museo, si narrava, per trafugarne una intera, in barba ai
decadenti aristocratici che si baloccarono prima di lui, frugando nelle tombe.
Nell'eccitazione dinnanzi a tante mummie, scappando con quella di un presunto nobile,
strappò via la testa da una di gatto, tentando di prenderla intera. Da allora
la testa rinsecchita, mantenendo la naturale espressione sorniona, svettava in
cima al credenzone, non avendo proprietà curative per l'uomo e, dietro
imposizione della Natura, che mai ammette repliche, per vigilare sull'esercito
di topi famelici in agguato.
L'ultima oncia della
preziosa polvere venne inutilmente usata per cercar di salvare il marito
morente, facendogliela bere in una pinta d'acqua benedetta, alla moda
degl'inglesi.
Il giorno seguente
l'infiammazione s'era incagnita e i due fratelli, mentre Zeina riceveva malati
di jattura, sgattaiolarono fino in centro città, per avere l'aiuto
rassicurante del medico.
Nawaf entrò
nell'ambulatorio, freddo e semivuoto. Una voce proveniente dal nulla lo invitò a sedersi.
"Guardi a
destra!", aggiunse perentoria la voce.
"Non deve ruotare
il capo, volga solo lo sguardo!", continuò stizzita, per poi sussurrare:
"...Imbecilli...".
Il dottore spuntò da
dietro il separé, posto a sinistra della scrivania, e si sedette di fronte a
Nawaf, il quale seguitava a fissare verso destra.
Dopo qualche secondo
d'osservazione, il medico aprì il cassetto più basso della scrivania e ne
trasse una confezione bluastra di
pomata .
"Tenga!" disse
a Nawaf, porgendogli il rimedio. "Due volte al giorno sull'occhio, mattina
e sera!".
Nawaf si voltò,
allungando la mano; i due si guardarono, entrambi palesando stupore. Vi era una
inaspettata somiglianza fra i due; i lineamenti erano gli stessi. Carnagione
scura e viso lungo, mascella pronunciata, stesso taglio degli occhi, sebbene
quelli del medico fossero più proporzionati e di un raro indaco intenso.
Nawaf, spaventato, si
alzò e, senza salutare, strappò di mano la medicina, correndo via.
Il medico non fece
troppo caso alla scortesia del paziente, non lo inseguì per l’onorario e nemmeno
valutò di chiamare le guardie. Conosceva gli zotici della suburra, inoltre lo
stupore di vederlo nel suo studio coprì l'irritazione; aprì il secondo cassetto
della scrivania, scostò un po' di oggetti, fra cui una scatola rosso porpora
con serratura dorata, e prese il suo pince nez.
Il terzo giorno dopo il
furto, l'occhio di Nawaf era tale e quale. Zeina mise alle strette il figlio,
che confessò l'incontro con l'occhio scrutatore. La madre, senza esitazione
alcuna, preparò sul tavolo un piattino pieno d'olio e una candela. Accese
incenso a grani e, mentre in una mano teneva il piattino, nell'altra sgranava
un rosario di legno, recitando
preci incomprensibili.
Girò intorno al figlio, seduto e
inebetito, settantasette volte, senza mai interrompere la nenia. Posò il
piattino sul tavolo, fece sgocciolare nell'olio sette gocce di cera della
candela e si sedette, osservando.
La cera si era agglomerata,
assumendo una forma sensata.
A Zeina parve di riconoscere la
sagoma della Notre-Dame de la Garde di Marsiglia.
Senza pronunciarsi uscì di casa,
lasciando Nawaf nell'assopimento indotto dalla cantilena liturgica.
Dopo circa un'ora Zeina rientrò. La
candela si era consumata del tutto e Nawaf era nella stessa posizione nella
quale lo sveva lasciato. I palmi delle mani poggiati sulle gambe, la testa
leggermente reclinata all'indietro, la bocca spalancata e gli occhi socchiusi;
la piatta litania del rito materno ristagnava nell'aria e Ibrahim russava senza
vergogna, nella camera da letto.
"Figlio mio" attaccò Zeina
"è un malocchio potente, io non posso aiutarti".
Ricurva sul figlio seduto, seguitò a
sussurrare: "la cera ha mostrato Marsiglia, tutte le madri sono concordi,
devi andare da Intissar. Lei saprà liberarti. Domani partirete".
In quei giorni Marsiglia pareva un
formicaio sventrato. I due vi arrivarono nel tardo pomeriggio e le strade pullulavano
di genti d'ogni foggia e provenienza. Urla e risate, schiamazzi, ubriachi ad
ogni angolo. Capannelli di gitani, come coaguli, rallentavano il traffico della
città. L'ebbrezza si respirava.
Era imminente la Festa di Santa
Sarah, in una vicina località, e Marsiglia straripava di gente di passaggio; i
due fratelli, malgrado le origini gitane, ignoravano l'importante avvenimento.
Erano dei semplici; così usano fregiarsi fra loro gli ignoranti, da sempre,
quando fra di essi corre buon sangue.
La semplicità, come la Natura, non
ammette repliche; la baldoria va onorata.
Quando il sole calò, la stessa sera,
l'occhio di Nawaf mostrava segni di miglioramento, la pomata del medico
produceva lentamente effetti, ma la fermezza del vino non gli permetteva di
veder meglio.
Ciondolando per la città, già
dimentichi della maga Intissar, catturati dalla fiumana sfociarono in una
piazzetta stracolma di debosciati, dove un'orchestrina di fiati sconquassava i
timpani e una decina di donne, al centro, erano rapite da un ballo indiavolato,
ruotando forsennatamente, malgrado la calca permettesse a malapena, agli altri
presenti, di dilatare il torace per respirare.
Cercando d'imboccare la via
d'uscita, infilandosi fra le persone spingendo con forza, Nawaf si trovò petto
contro petto con un uomo già incontrato.
Una benda nera gli copriva i capelli
e l'occhio destro.
Nawaf riconobbe subito il medico. Il
terrore sovrastò la confusione e lo stordimento, sciacquando via il rosso
rubino del vino, che gl'impediva di ragionare.
Il medico sorrise, s'avvicinò all'orecchio
del povero Nawaf e gli urlò, per farsi sentire nel fracasso generale:
"Oggi non sono stupito di vederti; lo ero, giorni fa, nel mio studio. Il
tuo appuntamento è per oggi, qui a Marsiglia."
Anche il semplice Nawaf comprese
d'essere al traguardo finale.
"Tu sei la morte, perché mi hai
visitato?" domandò.
Il medico, pur compresso nella
calca, riuscì a fare spallucce.
"E' il mio mestiere, qualcosa
devo pur fare, per mischiarmi con voi...", gli rispose beffardo.
Ibrahim era poco distante, cercava
di avvicinarsi, la corrente della ressa lo aveva sospinto in un'altra
direzione.
Quando, allungandosi, raggiunse la
mano di Nawaf, questi era contratto dal dolore: il coltello del medico, guidato
da mano sapiente, aveva tagliato di netto l'intestino e, risalendo, s'era
infilato nella milza. Nawaf si lasciò andare, ma non cadde subito. Il medico si
era allontanato, ma altre persone, come tasselli inseriti a pressione, avevano
colmato il vuoto, sostenendo il morente.
Nawaf se ne andò in pochi minuti, il
chiasso della piazza si fece soffuso e poi sparì, risucchiato da un punto
sospeso nel vuoto. Lontana, la risacca lo cullava verso il mare. Il padre lo
attendeva, in un ambiente privo di spazio, rischiarato da una luce neutra e
senza fonte.
"Vieni Nawaf...", gli sussurrò
tendendogli le mani.
"Qui nessun padre uccide il
proprio figlio...".
Nawaf lo seguì, accompagnato dalla
risacca e dalla sensazione, che via via si stemperava nell'incolore mondo
tutt'intorno, di non aver compreso le parole del padre.
Il giorno seguente, il medico trovò fuori
casa, ad attenderlo, Zeina.
Il medico si guardò intorno; nessuno
li vedeva.
La fece entrare, ma la bloccò dopo
due passi: "Hai portato i soldi?".
Zeina s'infilò la mano in mezzo ai
prosperosi seni, estrasse un rotolo di banconote e gliele diede.
Lui contò le banconote, poi,
sprezzante, le disse: "Quei cani mi hanno rubato l'occhio di vetro! Dovrei
alzare il prezzo pattuito, per ricompramelo, ma ora vattene, sparisci!".
Uscì prima il medico, per verificare
che la strada fosse sgombra, poi Zeina se ne andò, accompagnata dal latrare dei
cani; il padrone li teneva a bada con un bastone.
Ibrahim la attendeva a casa. Gli
occhi umidi e gonfi, infiammati dalla salinità del fiume di lacrime versate;
dinnanzi a lui, sul tavolo, l'occhio di vetro indaco.
Il medico, nell'ambulatorio, aprì il
cassetto e la scatola rossa, che conteneva un secondo occhio di vetro,
dall'iride indaco. Gli doleva usarlo, era il più recente dei due.
"Costano più dell’oro..."
commentò ad alta voce.
Zeina prese l'occhio e la testa di
gatto, staccò la mandibola, facendo attenzione a non sbriciolare la mummia,
mise l'occhio nella bocca del gatto e ricompose la testa legando la mandibola
strappata, per tenere unito il macabro oggetto, con del nastro nero.
Dispose candele nere tutt’intorno,
accese incensi e attaccò un piatto bisbigliare, intercalando momenti
d’esaltazione e grida.
Dopo una settimana di quotidiano
rituale, la salute del medico iniziò a vacillare. Dovette rinunciare
all'occhio di vetro e medicare la cavità oculare tutti i giorni, più volte, per
scongiurare un'infezione incipiente.
Dopo un mese spirò. L'infezione si
era fatta strada, la setticemia aveva compiuto il proprio dovere.
Mentre il medico riceveva degna sepoltura,
Ibrahim si introdusse nuovamente in villa e rubò alcuni oggetti preziosi;
vendendoli si sarebbero rifatti del compenso dato al medico, per uccidere il fratello,
suo figlio illegittimo.
Lo spirito del padre di Ibrahim, suo
omonimo, secondo Zeina, abbandonò finalmente la loro dimora.
4 commenti:
Potente!
Ciao Marco.
Tutto procede bene?
Ma quando finisce ’sto caldo? Non se ne può più!
Il racconto, preciso, è *arzigogolato* ma potente.
Non temere!
Natale è alle porte!
Hai ragione, è arzigogolato...
Ciao Marco!
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