venerdì 30 ottobre 2009

Non c'è più "gnente" da fare...



Pochi giorni fa, di mattina, offuscato perché appena risorto dalla piccola morte del sonno, stringendo troppo la curva a sinistra per andare in bagno e quindi urtando l'angolo del tavolo con l'anca, maledicendo tutti gli Dei, mi sono contorto dal dolore e lo sguardo è andato verso i miei libri seguendo la traiettoria browniana indotta dal male; precisamente l'occhio si è fermato - esaurito il moto - su "Il tamburo di latta" di Gunter Grass. Di questo libro straordinario ed epocale ne ho due copie, perché la prima (dei miei genitori), un'edizione Feltrinelli degli anni '60, sta attraversando la sua fase autunnale e quando la maneggio perde sempre tre o quattro pagine ingiallite.
Ripreso l'uso della gamba ho spostato la copia più recente sul tavolo, con l'intenzione di sfogliarla la sera.
Più tardi, in metropolitana, apprendo che Francesco De Gregori sarebbe stato ospite (la sera stessa) a X-Factor. La notizia mi ha sconvolto. E' la fine, tutto è perduto ormai.
Mi sono chiesto cosa possa fare o dire durante quel programma cassonetto colui il quale ha scritto che "l'uomo che cammina sui pezzi di vetro dicono ha due anime e un sesso di ramo duro in cuore e una luna e dei fuochi alle spalle mentre balla e balla sotto l'angolo retto di una stella"?
Cosa può pensare San Francesco De Gregori al cospetto di Morgan, ben agghindato da domatore circense di pulci, lurida fighetta insipiente e imbellettata, che nasconde il suo nome lombardo-puro perché di "MarchiCastoldi" ce n'è a bizzeffe tanto che io stesso ne conosco ben tre, escluso lui?
E perché ci va, poi, mi domando, San Francesco De Gregori? Per denaro? Per degenerazione cerebrale? Per ischemia? Perché?
Si, non c'è più niente da fare.
Cosicché, la sera, sfogliare "Il tamburo di latta" vagheggiando che l'urlo vetricida di Oskar avrebbe fatto scempio delle vetrate del volgarissimo carrozzone di Rai 2, infrangendo financo i pannelli di plastica e resine, al passo coi tempi il caro Oskar, immaginare Morgan finalmente pettinato dalla voce del nano lirico tamburinante, sognare San Francesco De Gregori rinsavito dal tre quarti dirompente al rumor di latta... questo impegno di fantasia è stato una logica conseguenza della giornata in cui è caduto l'ennesimo poeta.
Eh si... Non c'è più niente da fare, anzi "gnente"... Tanto che l'edizione recente del libro (sempre Feltrinelli) riporta sulla copertina a caratteri cubitali "NUOVA TRADUZIONE", mentre sul risvolto si precisa che la nuova traduzione è per celebrare i 50 anni dalla prima edizione del '59 e a pagina 114, capitolo "La tribuna" del Libro Primo c'è scritto "Speriamo che non significi gnente!"... 
Non c'è più "gnente" da fare...

lunedì 26 ottobre 2009

Formalità



In una sera di aprile, mentre una pioggia leggera ma incessante batteva le strade e le campagne, due persone si accingevano a servire la prima portata a degli ospiti (come di rito, a quel punto si considera iniziata la cena e andrebbe subito introdotto un argomento consono all’occasione).
Mentre i quattro si passavano di mano in mano altrettanti piatti di diversi antipasti con un poco d’imbarazzo (perché l’argomento tanto auspicato non affiorava alla mente dei presenti) la gatta stanca e indolente girovagava fra due gambe del tavolo e sotto due delle quattro sedie.
La gatta emise il suo caratteristico suono, mentre zampettava: una “i” seguita da una “a” lunga , un “iaaaaaaaaaaaaaaa….” ben sostenuto dal diaframma; infatti un orecchio minimamente istruito al canto poteva notare che la seconda (e ultima nota) non era mai calante.
La padrona di casa a quel punto fece notare che gli asparagi erano quasi cotti e a breve sarebbero comparsi sulla tavola.
L’ospite femminile rispose con dispiacere circostanziato di non aver mai assaggiato gli asparagi, pertanto non poteva assicurare un buon successo al piatto (ma questa seconda considerazione era solo intuibile, non certo verbalizzata) e intercalò il suo intervento con diverse risatine brevi e galoppanti, quasi nitriti.
Seguirono quattro, cinque secondi di silenzio, interrotto da un secondo e lancinante “iaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa…..” (la gatta rifece il medesimo percorso all’inverso: passò sotto due sedie e in mezzo alle due gambe del tavolo che si aprivano come un portale verso la sala buia).
L’ospite femminile si voltò verso il suo uomo, domandando se per caso lui avesse mai assaggiato gli asparagi.
Il padrone di casa si versò il terzo bicchiere di rosso, sorvolando sulla formalità di servire il vino agli ospiti a dispetto del protocollo.
L’ospite maschile inarcò leggermente le sopracciglia verso il naso, come per spremere la parte arcaica del cervello e trarre da ricordi ancestrali il sapore (e l’opinione) intorno all’asparago, ma nulla sovvenne. E’ questo un fatto molto curioso, poiché i sapori fanno parte di un patrimonio collettivo e recondito.
Si arrese: “…No… non ho mai assaggiato gli asparagi, non so se mi piacciono…”.
Il padrone di casa versò per sé il quarto bicchiere di vino ed il secondo per la padrona di casa.
Si rividero a cena dopo due anni. La pioggia lavava con meticolosità le strade, la gatta si spostava pendolante fra ciotola e cuccia emettendo il suo lamento da rivendicazione felina.
La padrona di casa cucinò ancora asparagi, che gli ospiti non mangiarono perché anche due anni prima non cedettero alla tentazione di assaggiarli.
Il padrone di casa bevve una bottiglia di buon rosso da solo.
Si rividero dopo altri due anni.