venerdì 11 luglio 2014

Bucefalo




Osservavo con attenzione il veterinario, indaffarato nel redigere la prescrizione incomprensibile.
La grafia ricordava la strisciata di un cardiogramma. Comprendevo qualche lettera sparsa, leggendo il foglio al contrario, in quanto anche mio padre declinava la grafia verso tali tensioni elettriche.
Mentre un ostinato ronzio accompagnava la penna del medico, riflettevo sul fatto che il tempo (si, sempre lui) fosse la malattia suprema; non v’era dubbio in quei momenti.
E’ la sorgente dei malanni, in quanto scorrazza liberamente nei tre regni della Natura erodendo, scarnificando, sbriciolando, disseccando e polverizzando. La dimostrazione di potenza incontrastabile è la sua azione sul “quarto regno”, cioè quello costituito dalle opere realizzate dall’uomo, che attinge da vegetali e minerali, plasmando gli elementi e producendo enti altrimenti non esistenti.
I nistagmi degli occhi del veterinario m’indispettivano. Fissando quegl’iridi verdi acqua, così vanamente vistosi, seguivo l’accentuato tremore fisiologico, durante la lettura.
Mi rendevo conto che il tempo se ne sbatte della magnificenza della Cappella Sistina, o dell’imponenza della portaerei Washington; figuriamoci cosa possa preoccuparlo d’un bruscolino dell’universo, quale un’autovettura oppure un chiosco per gelati, o delle perfette viti, intorno alle quali s’impernia il sublime meccanismo di un orologio.
Il tempo, nel suo eterno rotolare (una sua frazione è sempre uguale alla precedente, quindi rotola grazie a due soli raggi) esercita la sua ontologica azione, con la pazienza che solo ad esso è concessa, poiché non risulta intaccato dal suo stesso agire.
Il disincanto fu totale, scoprendo che anche Bucefalo era soggetto al macinare dei secondi.
Bucefalo venne datato da un team di esperti (uno dei quali arrivato direttamente dalle Galapagos): si accordarono (lustro più, lustro meno) intorno ai 3.521 anni.
Ereditai Bucefalo da mio nonno, che la ebbe da suo padre e lui dal suo; così a ritroso, affondando nelle sabbie viscose del passato, fino a perderci nella storia persa, in quanto non scritta.
Bucefalo, quando mi venne affidato, aveva circa le dimensioni di un camper. Non aveva nome, ma io ebbi l’ardire, in quanto mi risulta un potere conferitoci, di deciderlo.
Optai per uno che potesse contentare il mio ego.
Anche la montatura degli occhiali del veterinario, che pareva (ironia!) in tartaruga, incorniciando pesantemente gli occhi, attirava la mia attenzione amplificando gli scatti dei bulbi oculari, i quali tuttavia parevano già rallentati, rispetto ad un'ora prima. 
Prova ulteriore della supremazia del tempo fra i flagelli venne a noi fornita (intendo alla mia stirpe) dall’apparentemente immoto tartarugo, del quale un veterinario illuminato rivelò l’imminente fine al mio trisavolo, senza addurre spiegazioni.
“E’ così!” sentenziò sicuro di sé il vanesio, alzando il dito indice destro, puntando verso un angolo del soffitto, lasciandosi sfuggire un lieve sorriso di sussiego.
Così fu, benché – interpreto ora – vi sono differenze fra il tempo della tartaruga e quello umano; il mio trisavolo (che scampò alle battaglie risorgimentali) l’ebbe da suo padre, ma il tartarugo, che all’epoca aveva le dimensioni di una capiente botte, scampò fino ai giorni nostri, non senza mostrare sottilissime incrinature nel carapace e, in generale, nella condotta dell’esistenza.
Le sue pause fra un passo e l’altro erano ormai estenuanti per il tempo umano, già allora, salvo che per i campioni mondiali di scacchi, il cui istante ha consistenza differente, rispetto al nostro, da sempre.
Alludeva (il veterinario ottocentesco) ad una misteriosa goccia, una soltanto, che dall’inizio di ogni cosa, ha potere di scavare la roccia e dunque si tradì: la goccia di per sé non ha potere alcuno, non quanto il susseguirsi di esse, nel tempo; inoltre: è nata prima la goccia o la roccia?
Per questo io, sconcertato e dubbioso, in tempi recenti, mi avventurai incoscientemente e discesi nella tartaruga.
Imboccando la cloaca (ragion per cui mi bardai di tutto punto) scesi lungo un budello a scalini, verso destra, e in lungo corridoio a ferro di cavallo, notai subito una rigogliosa boscaglia di muffe multicolori, da far perdere il senno agli alchimisti; fossi disceso dotato di falcetto d’oro, mirabili ingredienti da pozione avrei raccolto, in quel mondo che virava verso la dissoluzione.
Narrano le cronache, che il veterinario del mio trisavolo seguitava a blaterare banalità sull’ineluttabile, durante la mia discesa da speleologo, ma la sua voce probabilmente s’era già fatta ovattata da un secolo almeno, rimbombava sorda, fino a comprimersi in un grasso ticchettio confuso, per sparire dal novero dei miei stimoli.
Ebbi il tempo di udirlo evocare il paradosso dei gemelli, ma non ne compresi il motivo e forse fu uno scherzo della mia immaginazione, tenendo conto che l'uomo dell'ottocento non poteva conoscerlo.
Girovagando per condotti soffici ma resistenti, costretto a peripezie da contorsionista, ispezionai l’acido stomaco, l’amaro fegato e gli spugnosi polmoni, infine i reni e poi risalii, controllando ben bene la presenza d’infezioni sotto la lingua.
Ora, elencare tutto quanto vidi è complicato, ma tutto fu chiaro, per quanto mi concerne: il tempo, sempre e soltanto il tempo.
Incontrai, oltre alle muffe variegate, presenze filiformi e aggrovigliate, matasse confuse che mostravano una sorta di coscienza, penetrando pareti lise e sparendo nei tessuti circostanti con un rumore simile a quello prodotto dal risucchiare l’ultimo spaghetto del piatto.
Esseri curiosi, senza capo né coda, senza bocca né ano, decolorati, suggevano densi liquidi lattiginosi e contemporaneamente rilasciavano liquami borbottando, mentre altri, più panciuti e dotati d’evidenti fauci, industriosi consumavano lembi di tessuto, parimenti al bruco che s’osserva divorare (lento ma incessante) una foglia.
Il rene era gibboso, grosse papule rigonfie lo acconciavano, il colorito era stanco e lo sappiamo: sorella morte ha delle tonalità a suo uso esclusivo.
Innumerevoli cumuli di solidi geometrici (di sostanza a me ignota) giacevano ammonticchiati in ogni ansa disponibile; a intervalli regolari uno scroscio mi allarmava ed un rotolar di cubi ed ottaedri, dai vividi colori cangianti ma tutti venati di verde acceso, mi sfilava dinnanzi tracciando un lieve solco nella pavimentazione interna della bestia e lasciando sul tracciato un lieve fumo, pungente d’ustione.
Quando il tartarugo inspirava, le arterie s’ingrigivano pulsando; quale e quanta lordura aspirava la bestia, lordura che non si mostra alla vista e della quale lo stesso veterinario quotidianamente fa incetta, respirando (immaginavo, durante la mia assenza, di ritrovarlo vivo) incessantemente?
Risalii lungo la trachea, tutto era comprensibile, nitido lo svolgersi degli eventi.
Ripulito di tutto punto e ben profumato d’acqua di colonia, tornai al gabinetto del veterinario, per discutere di filosofia, ancor prima che di medicina.
Lo colsi immobile, nella posizione d’indicare un punto del soffitto, con le labbra irrigidite nel vocalizzo della “i”.
Un lieve pulviscolo si staccava dalla punta del suo indice, trascinato via da un soffio leggero.
Le falangette del medio e dell'anulare erano sparite.