venerdì 26 febbraio 2010

Asa Carlstrom

Asa Carlstrom conteneva quasi per intero il mio nome nel suo cognome.
Non ricordo la nazionalità, forse norvegese, sicuramente del nord.
Ora, avanti negli anni, sospetto che fosse delle Svallbard.
Si corrispondeva in inglese. Gli argomenti erano banali e spesso evanescenti. Ad ogni rilettura perdevano materialità e l’inchiostro si faceva sempre più sbiadito. Asa Carlstrom mi dava notizie inutili; scriveva sempre di gamberi e burro: “Oggi burro e gamberi, domani gamberi e burro, dopodomani burro e gamberi…”. Si; era delle Svallbard, non c’è dubbio.
Asa proseguì a lungo coi resoconti intorno al nulla. Non un accenno alla quotidianità delle sue gelide terre, salvo parlare del suo percorso di studi, che appariva come solo un passatempo in attesa d’una precoce e feroce riproduzione. Col tempo mi feci scaltro e scrissi lettere clandestine, delle quali non parlai a scuola. Così facendo aggirai la censura dell’insegnante di lingue e diventai sempre più audace. In una lettera domandai timidamente se per caso Asa nutrisse passione per i fuochi fatui o per qualsiasi immagine crepuscolare e gotica, le chiesi di elencarmi i nomi delle Divinità nordiche, di raccontarmi i miti degli Dei (biondi e brutali) storditi dall’amanita muscaria, finché, incalzato dai compagni di classe, le domandai una foto.
Asa non me la inviò; se non erro mi rispose “later…”. Attesi questo “later” per alcuni anni prima di scriverle nuovamente.
Non scrissi più e così fecero anche i miei compagni coi loro corrispondenti esteri; l’esperimento fallì e l’insegnante con meschina eleganza lasciò cadere la cosa.
Dopo 7 anni ritrovai Asa che mi attendeva a casa, in compagnia dei suoi genitori; erano le 11.00 di un martedì. Era di passaggio durante un viaggio in Italia. Aveva conservato il mio indirizzo. I genitori andarono a fare una passeggiata sul lago e Asa rimase a pranzo.
Asa Carlstrom era orrenda. Molto grassa con la pelle diafana (il sangue untuoso e torbido si vedeva scorrere a fatica sotto la pelle), i capelli lunghi d’un biondo accennato erano raccolti in due grosse trecce attaccate al capo, tre dita sopra le orecchie: sembravano due code di vacca. Il mio nome era sempre contenuto quasi per intero nel suo cognome, addirittura lei poteva contenere tutto me stesso. Conosceva qualche vocabolo in italiano.
Intercalava nei discorsi delle risatine a bocca semichiusa, come mimando l’atto del succhiare da una cannuccia, facendo spuntare un cespuglio di rughette ai lati delle labbra. Quasi cinguettava quando rideva, appoggiando le braccia incrociate sui grossi seni e vibrando flaccidamente. Al termine della risata la vibrazione continuava qualche secondo per inerzia, generando un borbottio da fermentazione. Questo contrasto fra il suono e la sua sorgente mi lasciò esterrefatto.
Notai che Asa Carlstrom sudava come un maiale al sole. Mia madre quel giorno stava cucinando una lingua bollita – non attendeva ospiti - ma Asa si lamentò (cinguettando odiosamente) come se avesse riconosciuto nel piatto la parte di un suo parente stretto e mangiò solo verdura. Io rovistai nel frigorifero, ma non c'era traccia di gamberi e non pensai di servirle un bel panetto di burro freddo. Questo errore mi tormenta da allora.
Se ne andò presto, grazie Dio, verso le 18.00, e tornò per sempre nelle sue gelide terre. Quando uscì di casa i miei genitori si guardarono fissi negli occhi, poi si rivolsero a me: “Ma… Ma chi è?”…
Non avevano avuto il coraggio di domandarmelo in sua presenza. Io non ebbi il coraggio di rispondere, in sua assenza.

giovedì 18 febbraio 2010

Basilico e sedano selvatico

Da qualche giorno la guerra era finita.
Tutti rassicuravano tutti; non c’era alcun pericolo, ma non era vero.  Tre giorni prima lungo il canale il silenzio era stato rotto da degli spari. Avevano sparato a un "fascio", il padre dell’Emilio. Mi dispiacque: Emilio era un mio amico, ma non potevo certo dirlo.
Nelle campagne c’era una calma che non ricordavo: ero piccolo quando c’era la pace. 
Mia madre la mattina mi mandava alla cascina dei Rodara, per fare scambio di cose varie; ci si aiutava alla bene meglio.
Avevo un pesante carrettino coi pedali, il triciclo, con la cassetta davanti piena di vecchi abiti da lavoro. In cascina ne avevano bisogno. Uscivo dal cortile della nostra casa e giravo a sinistra costeggiando il canale. Attraversavo quasi subito la piazzetta del paese, dove fra le macerie c’era aperto il fornaio; il canale proseguiva poco lontano da me, aggirando il centro, ma lo incontravo nuovamente dopo. L’argine, dalla strada ciotolata ridotta male dalla guerra, dopo un quarto d’ora di sgambata diventava sterrato… Allora si che faticavo!
Dopo mezzora ero dai Rodara. 
Quella mattina la Livia stava scopando appena fuori dall’uscio e un nugolo di polvere prese sul viso un maiale, che grufolava a mezzo metro. Fece un verso, una via di mezzo fra lo starnuto e il grugnito. Sembrava fosse la prima volta che starnutiva e se ne andò via assorto e dubbioso. Mi meravigliavo sempre quando vedevo un maiale sopravvissuto.
Livia come sempre bofonchiò qualcosa, sapevo che era un saluto. Prese tutti gli abiti vecchi e sparì in casa. Senza il rumore della scopa sentivo le cavallette iniziare il loro concerto. Galli, galline e maiali erano pochi in giro.
Dopo qualche minuto uscì con due sacchi di iuta, buttandoli nella cassetta: basilico, tanto basilico, e sedano selvatico.  L’aroma, anche all’aperto, dava quasi allo stomaco.
“Ciao!” dissi mentre già spingevo sui pedali; ero in piedi per fare più forza. La partenza in triciclo è sempre molto faticosa. Dovendo invertire la marcia subito, lo è ancora di più.
Dopo qualche pedalata mi parve di sentire un rumore di ruote sullo sterrato, oltre alle mie. Voltai leggermente la testa a destra e sinistra sbattendo un po’ gli occhi, per l’aroma di basilico e sedano selvatico che mi infastidivano. Ero anche contro vento…
La sua bicicletta era molto più leggera, Mirina (la figlia di Livia) non pedalava neppure in piedi; mi raggiunse in prossimità della curva e si accostò sulla sinistra per superarmi.
Mi guardava e rideva. Il suo volto imperlato di sudore (le gocce venivano strappate via dal vento) era rosso dalla fatica, ma rideva.
Proprio in curva prese un grosso sasso con la ruota anteriore; ebbe uno scarto sulla destra. Io sterzai d’istinto, per evitarla… il triciclo si rovesciò con un gran frastuono di ferraglia e rotolai nel fossato, a poca distanza da un vecchio sambuco. Se fossi caduto a sinistra sarei finito nel canale.
La corrente si portò via alcune piante di basilico e sedano selvatico.
Ero sdraiato con le gambe all’insù, in fondo alla rivetta. Mirina rideva, fra una risata e l’altra sentivo il cigolio delle ruote del triciclo, che proseguivano lente a roteare nell’aria.
Il ginocchio destro era sbucciato, mi faceva male, sanguinava. 
Mi assalì un puzzo insopportabile, nauseabondo, che mi procurò all’istante un urto di vomito. Sembrava provenire dal sambuco.
Mirina continuava a ridere a squarciagola, piegandosi sulle ginocchia.
Improvvisamente la matta iniziò a prendere i cespi di basilico e di sedano selvatico, caduti tutt’intorno, lanciandomeli addosso.
“Ferma, cosa fai?! Sei matta?!”
Riuscii a urlare malgrado la nausea… mia madre si sarebbe molto arrabbiata se fossi tornato senza basilico; doveva preparare il pesto.
In pochi secondi mi ricoprì completamente dalla testa ai piedi, l’intensità dell’aroma di quelle piante annullò la puzza tremenda di quel luogo, ma la miscela era troppo intensa, fastidiosa. Da sdraiato, scuotendo la testa, mi scoprii gli occhi e intravidi Mirina scendere lungo la rivetta, di corsa, sempre ridendo.
Non feci in tempo a dire nulla che mi abbassò i pantaloni e le mutande.
Rimasi impietrito, sbirciando fra sedano e basilico. Mirina si sollevava la veste. Chiusi gli occhi…
Mi prese un calore indescrivibile in mezzo alle gambe e Mirina mi montò sopra. Non rideva più, ma era contenta e si muoveva veloce.
Mi piaceva ma, non capivo il perché, quello che stava succedendo aveva il tipico sapore delle cose da non dire. Poi il basilico e il sedano selvatico mi stavano soffocando. Il loro aroma dava  un miscuglio violento, che mi picchiava nella testa, dentro. Mi offuscava, quasi vedevo il colore di quell’aroma. Anche quello che faceva Mirina mi picchiava in testa, tutto era confuso, non capivo nulla. Era un bel momento, ma come trascorso sotto alla grandine… E finì subito...
Non feci in tempo a riprendermi dallo stupore,  che  Mirina era già tutta in ordine; raccoglieva sedano e basilico, rimettendoli nei sacchi tutti mischiati, dopo aver raddrizzato il triciclo.
I cespi rimasti al sole si erano già avvizziti.
Io mi alzai, indolenzito e sporco, il ginocchio sanguinava ancora leggermente.
Avevo un sorriso fisso che mi cambiava i connotati.
Mentre mi piegavo per tirarmi su le braghe ritornò violentissimo il puzzo nauseante. Fu a quel punto che, con la coda dell’occhio, in mezzo al sambuco alla mia sinistra vidi una mano. La risalii con lo sguardo.
Il polso si infilava nella manica di una divisa, dopo la spalla spuntava una testa, un elmetto caduto all’indietro, i capelli sporchi sembravano di stoppa. Dalla penombra proveniva il sibilo di brevi voli di mosche.
Non avevano sparato al papà dell’Emilio. Era un tedesco; chissà cosa ci faceva quella sera ancora in giro a farsi ammazzare.
Gli occhi erano chiusi, ma la bocca spalancata. La pelle era liscia ma gonfia, di un colorito grigio percorso da leggeri riflessi olivastri e sporca di terra rinsecchita. Il puzzo arrivava dal cadavere.
Mi prese un altro urto di vomito.
Mirina era zitta. Una leggera brezzolina scompigliò i suoi capelli e sembrò che una grande mano invisibile passasse sui prati attorno a noi; una carezza che piega leggermente le punte dei fili d’erba.
Entrambi guardavamo ammutoliti il tedesco.
Le cicale cantavano, mentre il  ronzio continuo di insetti si fece più forte. Una grossa ragnatela fra due rami del sambuco oscillava elastica e regolare, respirava.  Il ragno al centro era impassibile, sicuro.
Non ricordavo la campagna così calma;  ero troppo piccolo quando c’era la pace… Quando c’era solo la fame.


martedì 9 febbraio 2010

BIbi e Bubu...

Silvio è come un elefante goffo e bolso, diciamolo. Io lo immagino che si volta di qua e di là, perché lo acclamano: “Silvio! Silvio! Silvio!”… Lui si gira e col culone mastodontico (con un piccolo e ridicolo codino) abbatte scaffali, cristallerie, sradica quadri, spappola dita fra stipite e porta, e così via…
Ormai è così, ma MOLTI FANNO FINTA DI NULLA.
Va in gita in Israele e lecca i piedi ad un tizio che si chiama Bibi (si, per Dio, Bibi!!!) fa arrabbiare gli iraniani ed i palestinesi.
Poi per calmare i palestinesi (è lì... non per altro...) fa imbestialire gli israeliani. Poi l'ambasciata italiana a Teheran viene presa d'assalto.
Cioè, allora: quelli sono pazzi, si sa.... ma Silvio??? Parliamoci chiaro....

VA TUTTO BENE? Ah ah ah-ah Bubu…