mercoledì 12 marzo 2014

I cubi verdi




Millant’anni fa, quando il veneficio del servizio militare stava volgendo al termine, iniziai a frequentare un gruppo di neo fricchettone, che all’epoca mi affascinavano non poco, per tutta una serie di ragioni immotivate.
Una sera, dopo aver ascoltato i loro vacui discorsi, presi parola e raccontai un’idiozia confacente, cioè descrissi il dramma di un certo “X”, il quale si risveglia in un luogo privo di riferimenti, colori e connotazioni spaziali. Una volta ripresosi, come un corpo che si risveglia dalla metempsicosi (e così citai Proust, ma non se ne accorsero), X non solo si accorse di essere circondato da cubi verdi fluttuanti e fluorescenti, ma di essere lui stesso siffatto.
Fu così, allora, che X apprese la sconcertante verità: X non era un essere umano, ma un cubo di gelatina verde. Tutto il suo vissuto era frutto della sua mente; probabilmente (tuttora non ne sono certo, in quanto non conoscevo e non conosco la fisiologia dei cubi di gelatina verdi) al momento della nascita un grave intoppo lo fece sprofondare in uno stato vegetativo.
Ora, abbandonando le neo fricchettone, la cui reazione positiva al mio racconto le qualificò spietatamente per ciò che erano, il povero X s’era sognato tutto.
Il parco giochi in Via Solari, il cane che mangiava il suo pongo per poi defecare in mille colori, il distributore di semi di zucca e la nonna imbacuccata in una sciarpa color corallo.
Le scampagnate coi genitori, a cercar fossili o funghi, i musei della scienza e l’enciclopedia di casa, con le sue agghiaccianti immagini anatomiche d’uomini scorticati in nome della conoscenza e quel San Sebastiano pluritrafitto, con lo sguardo diretto in alto a destra, da dove proveniva il fascio di luce, lo sceneggiato sugli Sforza ed il loro stesso castello.
Poi, questa immensa matassa d’irrealtà si gonfiava a dismisura, di pari passo col pieno risveglio del povero X; comparivano allora antiche civiltà ch’erano esistite altrove, di là dell’oceano mare, e la consapevolezza delle pagine riempite a descrizione di questi popoli perduti, acconciati con penne d’uccelli mai visti e dai nasi perforati con ossa di ispidi mustelidi, divoratori d’insetti coriacei e anelidi grassi come anaconde. Riaffiorava la consapevolezza della lingua perduta di questi selvaggi, al pari delle lingue straniere ch’esistono ma non si conoscono e in questa babele di cose e voci, s’affacciava il ricordo bambino del dispiacere nell’apprendere che Santa Klaus, al pari dei tappeti volanti e del Barone di Münchausen, era un’innocente menzogna per rallegrare i piccoli.
Altra menzogna fu quella delle presunte conseguenze mortali, una sparata della nonna, per aver ingoiato una pallina di stucco, durante l’apprendimento dell’uso della cerbottana e comparve pure la certezza che il dolore per la lunga fila di morti, dalla prozia paterna (che fumava sigarette strette e lunghe, tenendo un mignolo all’infuori e commentando in francese “il faut!”) ai popoli spazzati via dai cataclismi, fu un dolore vano, suscitato da eventi mai accaduti e che, forse, la razza dei cubi verdi gelatinosi nemmeno conosceva il dolore, imbevuta com’è d’un pneuma che veicola l’atarassia, e di questi concetti nemmeno conoscevano l’esistenza, in quanto fu soltanto X, nel suo lungo sonno, ad inventare la filosofia antica e le teorie contrapposte, sebbene non le avesse mai studiate e fossero rimaste incistate allo stadio larvale, come tenie nel carbonato di calcio (cosa siano gli elementi primi sarebbe un altro argomento monumentale), e gran parte delle velleità, che si consumano rotolando nella discesa del tempo, il quale non esiste nel mondo sospeso dei cubici gelatinosi.
Ebbene questo inaudito labirinto di realtà, completato dalla presenza dell’universo e, forse, di dimensioni parallele, dalle quali connaturate realtà ci scrutano, attraverso un velo puramente ideale, passati gli anni delle neo fricchettone, mi tormenta tuttora, come tormentava allora il povero X.
Negli anni, compreso che non esiste struttura del pensiero senza linguaggio, mi sono chiesto come poteva X comunicare coi suoi simili, senza aver passato i loro misteriosi stadi evolutivi e come potesse allora costruire un universo intero, senza cedere alla schiacciante realtà d’un caso democriteo favorevole.
Saltuariamente aggiungo un particolare dei ricordi del mio flaccido e verde alter ego; ieri sera, infatti, leggendo un racconto della Munro, ho aggiunto: “X non si capacitava del fatto d’essere stato rimbrottato, per aver pronunciato Munro alla francese e non all’inglese, cioè non comprendeva esattamente la ragione per cui un cognome canadese non andasse pronunciato nella lingua principale del paese, paese che – manco a dirlo – non aveva mai visitato; X non digeriva il fatto d’essersi documentato intorno a vicende storiche e colonialiste d’un mondo mai esistito”.
Beh, tutto qui.


Share