venerdì 19 settembre 2014

Il mito dell'ascensore



Benché la mia cultura generale sia soltanto una sapiente spolverata, e ciò – gioco forza – sia lo spirito della mia scrittura, vi è uno sparutello gruppo di persone che mi manifesta stima, talvolta financo lasciandosi scappare paragoni spregiudicati, citando colossi i quali, per pudore, non nomino.
Di questo gruppuscolo di aficionados, qualcuno si spinge oltre la spontanea stima e domanda perché latiti, mi pungola e richiede che io partecipi con maggior puntiglio a questo caos (forse democriteo) che è lo scrivere anonimo, nell’oceano della rete.
Ebbene, sento oggi il bisogno di spiegare il mio ultimo sonnecchiare; che sia un fisiologico moto di peristalsi? Non so, ma non ne abbiate a male…
Allora: molti anni or sono, studente di chitarra classica, prendevo lezioni sul retro d’un negozio di strumenti musicali. In quel tempo, del quale nulla persiste, se non io e la chitarra, scribacchiavo le prime mitosi della mia poetica.
Tengo ad evidenziare che “il retro di qualcosa” è sempre luogo di rivelazioni, siano calcinacci dimenticati dopo remote ristrutturazioni, che ossa di gallina schifate dai moderni gatti sfamati ad aromi artificiali.
In quel negozio, in attesa del maestro, mi capitò per le mani un vecchio libello di non so chi: la trascrizione di un’intera intervista a De Gregori; preciso che, dato il caratteraccio del Francesco, il termine intervista è fuori luogo. 
Ebbene, San Francesco, tanto l’amavo da collocarlo fra le mie personali icone, raccontava il suo stile di scrittura dei testi, usando quale esempio (che io ricordi) la mirabile “Cercando un altro Egitto”, in cui si narra, Vi ricordo, come la mattina presto San Francesco venga chiamato dalla strada, pare che qualcuno lo voglia uccidere e lui, un po’ confuso, prenda tutto e “come San Giuseppe” si ritrovi a rotolare per le scale, cercando un altro Egitto.
Il Santo spiegò che ben poco gl’importava di essere compreso, o che il testo avesse un senso, ma che si dilettava ad accostare immagini le quali, a risultato finito, parevano formare una storia compiuta.
Una lacrima mi sfuggì, perché io stavo abbozzando un qualcosa di simile; mi sentii sorretto dal mio vate ed il mio vagito prese forza.
Da quell’involontario plauso del mio caro aedo nacque una ruvida  raccolta di poesie, seguita da una seconda ben più raffinata, in quanto l’esercizio paga sempre.
Le prime furono storie brufolose, da scariche ormonali, nelle quali consigliavo di “lasciare ai pianeti le rivoluzioni/per quanto io ami quelle autunnali” o me la pigliavo con Europa Radio, colpevole a mio dire di tenere un piede nel presente ed uno nel vuoto.
Fecero seguito poesie più delicate, intime e – qualcuno afferma – alchemiche; ecco. Qui, giunti all’alchemico, ho incontrato il vallo invalicabile.
Passai qualche anno fa, lungo la costa, davanti all’isola di Krk, il cui nome ricorda una frattura, ed una placida coltre nebbiosa la nascondeva; il ponte che la univa al continente infilzava una nuvola.
Questo accidente naturale mi colpì. Pensai di comprendere anche il mito di Avalon e mi produssi nel metallico e moderno, nonché scialbo, mito dell’ascensore.
Immagino allora un palazzo a più piani.
In ogni piano si parla una differente lingua e, forse, persino l’aspetto dei residenti è differente; io lo ignoro, in quanto non ho accesso ai piani (se non al primo) e neppure conosco le diverse lingue di questa babele.
L’unica mia possibilità, per conoscere i mondi a me proibiti, è quella di sfruttare il lift-boy, dotato di passepartout.
Egli mi ascolta, annota, sale di piano, guarda, chiede, traduce e mi riporta. Il punto focale della questione riguarda il linguaggio utilizzato dal caro lift-boy.
Egli non è poliglotta, appare anche privo di volontà. Egli usa una sorta d’esperanto matematico, le cui parole si fondono o si giustappongono a quelle di lingue sconosciute. Si miscelano, come parassiti sguazzano negli ambienti stranieri.
E’ il midollo matematico che conferisce proprietà trasformista alla lingua del ragazzetto.
Così, il mito termina qui; avevo avvisato che fosse scialbo.
Ora, posto che, senza linguaggio non c’è pensiero e senza pensiero non c’è espressione, si deve accettare il fatto: si scrive di ciò che si conosce, si ricerca sempre e solo di ciò che si conosce. La scienza così si muove in un apparente buio: si muove di un passo, dopo aver imparato cosa sia un passo.
Ragion per cui, concludo, siccome si ricerca l’ignoto in base al noto, lo scrivere a mio avviso procede a ondate, a maree.

Io scrivo quando il ragazzetto torna a piano terra, quando posso esprimere ciò che di nuovo ha scoperto.