mercoledì 23 gennaio 2013

Il Limbo Terreno


Uno dei miei tentativi (goffi e malriusciti) di scrivere un romanzo ebbe (ed ha tuttora) il titolo de “Il Limbo Terreno”.
Questo scritto fu inviato ad una nota casa editrice, per partecipare ad un concorso letterario, ma giustamente non fu considerato.
L’unica conseguenza di questa mia fatica fu un periodo di particolare attrito con mio padre: il tempo a disposizione per inviare il tutto al concorso era risicato.Spiegai a mio padre che per un mese sarei stato irreperibile. Lui annuì, si dimostrò comprensivo a tal punto che, dopo due giorni di sobbollore, mi additò quale ricettacolo dei peggiori difetti umani, il tutto perché non volevo aiutarlo nel giardinaggio.
Padre a parte, l’idea alla base del romanzo era banalissima e utopica: descrivere quel processo chimico-fisico che ingenera la solidificazione dei pensieri. Immaginiamo la nebbia, ghermita dal freddo invernale, che si appesantisce, si posa su tutto ciò che tocca, si adagia sulla realtà aggregandosi in una sottile, impalpabile ed invisibile patina.
Ecco, con la medesima logica, a mio avviso, i pensieri ricoprono la realtà materiale d’una pellicola intangibile; questa non influisce minimamente sulle meccaniche chimico-fisiche dell’oggetto colpito, ma ha come risultato di variare le sfumature dell’oggetto, dal punto di vista dell’osservatore.
Il Limbo Terreno, nel romanzo, non era quindi una zona dell’esistente. O meglio, lo era del tutto: era l’esistente. Era la condizione percettiva del “vedente”, di colui che sfuggiva alla trappola dei sensi fallaci. Era la quotidianità del Neo di turno.
Mi duole ammetterlo, ma scrissi tutto ciò prima dell’avvento di Matrix, scopiazzando grossolanamente dall’abc della filosofia greca. Tutto ciò si è ripetuto (ho amici che possono testimoniare) con l’avverbio “comunquemente”, che usai a lungo prima di Cetto-Albanese. In altre parole sono un coglione.
A prescindere dalla mia stolidaggine, il Limbo Terreno e le proprietà della venefica pellicola (il cui nome ora non rammento) mi sono tornati in mente per via della situazione politica italiota.
Prendiamo due antagonisti politici, mettiamo al centro un oggetto, che so… Una sedia.
L’onorevole A persuaderà metà degli italiani, che vedranno una chaise longue, mentre l’altra metà vedrà uno sgabello, persuasi dall’onorevole B. Il “vedente”, un ininfluente protozoo che nuota nel Limbo Terreno, non si capacita di tutto ciò. E’ una sedia, una fottuta sedia di legno, con seduta di paglia. Non è vero, quindi,che si raccontino sane balle, no. Si variano le sfumature, si altera un poco la realtà descrivendola, in modo che le nuove arbitrarie sfumature soppiantino quelle reali. La realtà vera, perciò, non è più importante della sua funzione di fulcro, grazie al quale agisce la leva della pellicola-pensiero.
  
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2 commenti:

Marco Bertoli ha detto...

E certo! Perché il principio della realtà non è materiale, ma spirituale! (il sintagma «rozzo materialismo» mi è sempre parso pletorico: si è mai dato materialismo che non fosse rozzo?).

On a different note: hai fatto malissimo a non insistere con il tuo romanzo, che in un modo o nell'altro era pieno di pensiero. Hai lasciato via libera a quella scuola di scrittori (oddìo, «scrittori»: scriventi, ecco) facenti capo alla c.d. scuola emiliana e capeggiati da Paolo Nori.

Carlo ha detto...

Beh, ma se venissi risedotto (e spero stuprato) dalla Musa, potrei ritentare!
Ciao Marco!